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Il Femminismo relazionale della Mensa dei Bambini Proletari di Napoli

Maria Teresa Annarumma

Recentemente, e con grande mia gioia, si è svegliata una nuova attenzione nei confronti dell’esperienza della Mensa dei Bambini Proletari fondata a Napoli nel 1972 e durata circa dieci anni: nata da un nucleo di Lotta Continua presente in città, si stabilì nel quartiere Montesanto, un quartiere centrale, ma all’epoca anche molto povero e con un indice di mortalità infantile pari al 70 per mille.

Questo rinnovato interesse però, ha visto una narrazione attenta (giustamente) all’infanzia e ai modelli educativi più avanzati che la Mensa proponeva, ma lo ha fatto quasi sempre usando una lente di lettura maschile che dimenticava una peculiarità importante di quell’esperienza: il nucleo femminista che nacque al suo interno e che lo animò fino all’ultimo, rappresentando un’unicità nel panorama dei movimenti femministi italiani.

Il mio incontro con questa storia invece, non è nato leggendo una delle tante interviste a Geppino Fiorenza (uno dei fondatori), ma dalla scoperta del pensiero e dell’attivismo di una delle sue fondatrici, Lucia Mastrodomenico e, successivamente, dalla mia amicizia con la sorella Cinzia, un’altra delle fondatrici che, attraverso i suoi racconti e aneddoti, mi ha aperto gli occhi su una realtà politica di successo basata su un mutualismo quasi interamente fondato sulla capacità relazionale delle donne.

La scelta di Lotta Continua di aprire la Mensa, fu dettata dalla consapevolezza che grosse fasce di sottoproletariato non erano raggiungibili dalla loro azione politica: Napoli, agli inizi degli anni ’70, aveva grosse industrie come l’Italsider ma, allo stesso tempo (come in parte anche oggi), una fetta importante di queste persone erano disoccupati impegnati in lavori saltuari o spesso illegali e che non si sentivano rappresentati da nessuna realtà politica, oppure non si poneva neanche il problema della propria identità politica.

Allo stesso tempo Lotta Continua viveva a Napoli, come in tutta Italia, una grossa conflittualità con i movimenti femministi al suo interno: in questo contesto, la Mensa divenne uno spazio sperimentale per un mutualismo che vide le donne come protagoniste, sia dal punto di vista della parte attivista sia di quella della comunità di riferimento.

Montesanto, come dicevo, era un quartiere estremamente povero, ma la Mensa, oltre a distribuire pasti a centinaia di bambini ogni giorno, si propose come realtà ambiziosa, adottando modelli pedagogici sperimentali che davano grande spazio alla personalità e alla creatività degli “alunni”: una scuola pomeridiana che toglieva i bambini dalle strade e sollevava le famiglie più indigenti dal dovere di accudimento educativo che non potevano sostenere, sia per mancanza di tempo che per mancanza di strumenti.

Fin da subito però, ci si rese conto che ai bambini corrispondevano le loro mamme e che queste, spesso, vivevano situazioni non solo di povertà ma anche di sottomissione culturale ed economica nei confronti dei mariti o delle proprie famiglie di origine.

Quando si racconta di questa esperienza si ricordano i nomi dei personaggi noti che vi hanno lavorato, da Fabrizia Ramondino a Goffredo Fofi o Adriano Sofri, e si ricorda anche l’interesse nazionale e internazionale che riscontrò: c’erano finanziatori internazionali, così come persone che da vari paesi venivano per un periodo a Napoli per lavorarci gratuitamente. Pochi, però, ricordano i nomi dei bambini e delle loro mamme così come Cinzia Mastrodomenico ha fatto con me, quando mi raccontava della via di fuga dalla violenza domestica che la Mensa rappresentava per molte donne del quartiere.

Copertina del primo numero di Teiko

Archivio Mensa dei bambini proletari-Napoli ©Cinzia Mastrodomenico

Lucia diceva: «sulla capacità che le donne hanno, a qualsiasi razza e cultura appartengono, di creare relazione, ho fondato il mio lavoro. Se le donne riescono a costruire relazioni significative, il lavoro è possibile e gratificante, in caso contrario, risulterà un obbligo che non produce crescita». E in effetti la rete femminile di supporto alla maternità e all’educazione che nacque alla Mensa rese gli uomini/mariti “tranquilli” quando le loro mogli andavano dai “comunisti” (nel quartiere si parlava genericamente dei comunisti quando ci si riferiva alla mensa) e diede alle donne spazi di confronto e di autonomia che non sarebbero stati possibili in quei contesti sociali.

Nacquero così i laboratori per la maternità consapevole con corsi sulla contraccezione e spazi di ascolto per le donne vittime di abusi domestici ma, soprattutto, la mensa divenne il luogo delle donne per confrontarsi sui problemi dell’essere donna e madre. La “Mensa” congiungeva in un’unica visione la missione sociale, politica e relazionale dell’azione politica e una diversa declinazione della lotta femminista. Come anticipavo, fu capace di incontrare grosse fasce di popolazione non raggiungibili altrimenti e di farlo creando relazioni di fiducia: infatti, quando la fama della Mensa si diffuse in tutta la città e anche all’estero, furono proprio gli abitanti di Montesanto, lanciando oggetti dai balconi e per le strade, a sventare più di un attacco tentato dalle frange dell’estrema destra.

Anche il movimento femminista aveva una sua peculiare declinazione e, per descriverlo, userò le parole di Lucia in Ricette di solidarietà: «Il nutrimento, quello materiale del cibo, è inscritto nella cura che le donne da sempre hanno donato a figli, uomini, anziani; chi pensa che questa è una risorsa quotidiana da viversi in privato non sa che ormai è inscritta come opera di civiltà pubblica delle donne. Per questo politicamente riconoscibile come essenziale, dunque rappresentabile come simbolica».

Se una delle principali battaglie del movimento femminista del tempo era quello di liberare le donne dal “dovere della cura”, Lucia e la Mensa stravolgono il paradigma e, pur mantenendo fermo il principio della negazione del “dovere di cura”, lo interpretano come potenziale per un’azione sociale, come caratteristica capace di sostenere altre donne che non avevano né le possibilità economiche né culturali per liberarsi da questa gabbia familiare e sociale. Liberarle dalla cura dei figli e della casa per qualche ora, significava dare il tempo della libertà e del sé che altrimenti non si sarebbe mai realizzato.

Se non vogliamo credere che l’emancipazione femminile sia un privilegio riservato a chi può permetterselo economicamente o che non la si possa conquistare se non rinunciando alla maternità, negli ultimi anni, probabilmente, la nostra società ha cancellato dalle priorità l’attenzione a questo aspetto della condizione femminile, come se il solo affermare che “il dovere di cura” non sia ad esclusivo appannaggio delle donne fosse sufficiente a farlo scomparire. Ma come la pandemia ci ha insegnato, la realtà vissuta dalla maggioranza delle donne è quella di una società che non le libera dai doveri familiari (stiamo parlando di 10,4 milioni di donne di cui, come l’Istat ci ricorda, il 93% ha il carico esclusivo della cura dei figli e il 42,6% dai 25 a 54 anni sono inoccupate) e di uno Stato che non provvede a colmare questo divario con il welfare.

Relazione, attenzione, partecipazione e condivisione possono essere le parole che descrivono, in breve, l’esperienza della Mensa dei Bambini Proletari, la sua durata nel tempo, come pure la sua indipendenza dalle istituzioni: possiamo domandarci come attualizzare questi valori per una rinnovata partecipazione politica? È immaginabile, in un mondo confuso come quello che stiamo vivendo, che l’attenzione personale e fattiva ai diritti disattesi, possa far sedimentare una nuova coscienza politica?

La pandemia ci aveva ricordato il bisogno necessario della cura e delle relazioni sociali, la Mensa ci riporta a questa lezione che sembra dimenticata, a un’azione politica relazionale fatta sul campo, nella ricerca di risposte concrete e, allo stesso tempo, all’investimento sul futuro delle nuove generazioni, offrendo educazione, metodo e cultura. Un’azione che guarda in faccia i problemi che affliggono larghe fasce della popolazione dimenticate, come quella delle donne senza lavoro o non abbienti, che restano inchiodate a ruoli sociali che nessuno intende assumere, che le bloccano o rendono la loro affermazione sociale e lavorativa un’impresa ingiustamente più ardua.

Copertina del primo numero di Teiko

Archivio Mensa dei bambini proletari-Napoli ©Cinzia Mastrodomenico